Il Canto dei Vicoli
Ultima modifica 25 marzo 2022
Mauro Gioielli - www.maurogioielli.net
Articolo pubblicato sul periodico «POLIS, idee e cultura nelle città. Isernia e la provincia»,
anno III, n. 13, 1998, pp. 20-21.
Isernia mostra una identità etnica in profonda trasformazione, con segni evidenti di crisi e di rinnovamento.
Sono ormai desuete molte pratiche tradizionali, e s’è quasi completamente dissolta una cultura orale fatta di fiabe e leggende, di proverbi e detti contadini, di canzoni e filastrocche, di scongiuri e formule magiche. È un patrimonio che ogni tanto riaffiora nella memoria collettiva e nel linguaggio ma che sembra sopraffatto da nuove consuetudini e nuove forme espressive. La città, in effetti, rispetto ad un passato anche recente, ha oggi un mutato nucleo sociale e un diverso aspetto urbano e produttivo. Disgregatasi l’originaria comunità contadina, il ceto borghese costituisce la parte maggiore della popolazione, una parte che coltiva interessi culturali non più specificatamente endemici e tradizionali ma anche interetnici e mediali.
Questo nuovo panorama socio-antropologico, su cui influisce anche la consistente colonia Rom insediatasi stabilmente in città, sembra destinare ad un prossimo oblio elementi ed aspetti tipici dell’antica tradizione demologica autoctona. L’uso del dialetto, ad esempio, mostra continue ‘italianizzazioni’. Praticato compiutamente solo dagli strati più popolari, viene man mano abbandonato dalle nuove generazioni. La mutazione culturale ha influito anche sul repertorio della musica popolare. Cessate le motivazioni funzionali delle ninne nanne, delle canzoni di mietitura, delle danze sull’aia, ecc. tali espressioni di “comunicazione popolare” si avviano verso l’estinzione. Si tratta d’un repertorio ch’era sopravvissuto in ragione di esigenze naturali legate ai cicli della vita e del calendario, esigenze oggi non più valide o concretamente trasformatesi.
Forse gli ultimi, autentici sussulti di questa cultura sono stati quelli che potei cogliere sul finire degli anni Settanta [1], quando una campagna di ricerca etnomusicale mi permise di recuperare un consistente numero di canti folklorici isernini. L’indagine interessò marginalmente le zone rurali e in via principale la parte antica della città. Anziani informatori eseguirono per me un repertorio che si dimostrò ancora sufficientemente vivo: canzoni narrative, d’emigrazione, d’amore, di lavoro, per feste e ricorrenze, ecc. Furono circa cento i documenti sonori registrati [2].
Questo articolo – per limiti di spazio – tratterà una piccolissima parte del materiale raccolto. Sono pochi esempi, scelti tra i canti che affrontano il tema dell’amore con accenti lirici e spunti erotici. Il menzionato limite non ha consentito di trascrivere per essi la relativa partitura musicale. Il lettore, dunque, più che ad uno studio etnomusicologico scientificamente corretto, si troverà di fronte ad un mini saggio di “poesia popolare”. Per i medesimi motivi di spazio, anche le analisi glottologiche e le considerazioni linguistiche risulteranno mortificate o del tutto assenti [3].
La palettella. Canto per la “richiesta del bacio”. La palettella è l’attrezzo usato per raccogliere la cenere e i piccoli carboni ardenti del camino. Il rossore del viso della fanciulla, causato dall’eccitazione amorosa, viene giustificato con la vamba de ru fuoche (fiamma del focolare).
Bella quatrara, se te vuò fa vascià
piglia la palettella e vié pe’ foche.
Se zi n’addona mammeta, bella, di ru bacie,
rille ch’è stata la vamba de ru fuoche.
La vamba de ru fuoche, bella, nen è state.
È state ru vascie de ru ’nnamurate.
Juorne re la festa. Una serenata, canto “maschile” destinato ad essere eseguito (o fatto eseguire) dall’innamorato. L’ho, però, raccolto da una donna che lo cantava al lavatoio pubblico (ru puzze) insieme alle amiche. Tale mutazione funzionale ne trasformò anche l’esecuzione vocale che da solistica divenne corale (più lavandaie cantavano all’unisono).
Te so’ ncuntrate juorne re la festa,
potenza de ru ciele comm’ive bella.
Tenive capiglie nire e faccia tonna,
ghianca comm’alla neve alla muntagna.
Ie t’haie fermata e ti sci fatta roscia,
sci ritte: “Tenghe scuorne!” e sci scappata.
Cuscì t’haie aspettate juorne appriesse
mentr’ive a piglià l’acqua a la funtana.
Sia beneretta st’acqua, ohi nenna mea,
ca so capite li penziere tié.
E li penziere tié so’ dell’amore
so’ come a chiri mié da tanta tiempe.
Tutte re prievete. Quattro versi d’un boccaccesco canto. Si minaccia una Bella (qui intesa come monaca) di raccontare al Vescovo la tresca amorosa tra lei e un prete [4]. La Bella non se ne preoccupa, anzi se sarà privata dell’abito monacale potrà finalmente sposarsi (ie me ’nzore).
Tutte re prievete vanne a la puttana.
Bella, ce l’aggia rice a Munzignore.
Che me ne ’mporta a me ca ce le rice,
isse me leva l’abbete e ie me ’nzore.
Ninuccia. Il classico canto della malmaritata: la ragazza andata in sposa ad un vecchio. La notte, l’infelice fanciulla piange fino a ‘seccarsi’ come il fiume Carpino. Il vecchio marito dichiara la propria impotenza (Cristi mi l’è livati la putenza) e cerca di consolarla promettendole vestiti e gioielli. Lei replica chiedendo l’unica cosa che davvero desidera: un uomo giovane.
Li piange che zi fai la zitella
quande ze colica chi lu viecchie a lata
Essa zi colica e pari ’na lattughella
gl’uocchie com’a Carpino siccata.
Chi vuoie Ninuccia mia che vuoie che faccia,
Cristi mi l’è livati li forze a li braccia.
Chi vuoie Ninuccia mia che vuoie che penza,
Cristi mi l’è livati la putenza.
Zi voi la vunnilluccia mo ti la faccia
quello coloro che ti piace a tea.
Nin voglio né vunnelle né cannacca
voglie ru giovinotto che m’abbraccia.
Zi voi li cannacca mo ti li faccia
quello coloro che ti piace a tea.
Nin voglio né cannacca e né linzola
voglio ru giovinotto che mi conzola.
Zi voi li linzola mo ti li faccia
quello coloro che ti piace a tea.
Nin voglio né linzola e né ricchine
voglio ru giovinotto a me vicine.
Zi voi li ricchine mo ti li faccia
quello coloro che ti piace a tea.
Nin voglio né ricchine e né vunnelle
voglio ru giovinotto belle belle.
Ru Capetane. Una fanciulla confessa alla madre l’incontro avuto con un Capitano. L’uomo ha condotto la ragazza in un posto appartato e l’ha fatta spogliare. L’iniziazione sessuale è simboleggiata dalla danza (me facette abballà).
Mamma, mamma, nen me vatte,
t’arracconte tutte ru fatte.
Iere sera alla fundana
ce truvaie ru Capetana.
Mi pigliatte che la mane
e mi purtatte rend’alle rane.
E le rane ieva ruosse
e mi purtatte rend’alle fuosse.
E ru fuosse ieva cupe
e ze scassatte ru pizzuche.
Levete, levete la vunnelluccia
ci facemme ru lettuccie.
Levete, levete ru mandezine
ci facemme ru cuscine.
Ie crereva ca me sparava…
e me facette abballà.