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La Pupattola della Quaresima

Ultima modifica 25 marzo 2022

di Mauro Gioielli  www.maurogioielli.net

Articolo pubblicato nel settimanale «EXTRA», anno IV, n. 10, 15 marzo 1997, p. 12

Isernia sta man mano smarrendo la propria identità etnica. L’alto numero di lavoratori e studenti provenienti dall’hinterland provinciale, la cospicua presenza di residenti d’origine campana e la costante crescita demografica delle minoranze zingare, sono elementi che contribuiscono non poco a questo fenomeno, poiché risultano «corpi estranei» alla radice storica ed antropologica della città. Ciò conduce verso un progressivo abbandono di pratiche e usanze popolari che erano ragione di coesione umana tra gli appartenenti alla comunità indigena.

Alcune tradizioni, però, resistono ai tempi. È il caso della Curaesëma (Quaresima) che, solo grazie alla passione dell’ormai ottantunenne Antonio Martella, continua a perpetuarsi nella caratteristica e ‘teatrale’ Piazza Sanfelice.

La Curaesëma è costituita da un cono di discrete dimensioni, sulla cui sommità è raggomitolata quella che dovrebbe essere una testolina posticcia. La figura, appesa ad un filo metallico che attraversa la piazza, è una sorta di pupattola vestita di nero (stoffa d’ombrello), corredata d’una scopa fatta di fili di saggina. Alla base del cono c’è un telaio circolare da cui pendono alcuni cibi che sono il menù quaresimale: baccalà, aringhe, peperoncino, cipolla, aglio, una bottiglietta d’olio, un po’ di pastasciutta, frutta secca, ecc.

Un tempo, il tutto era completato da una patata nella quale venivano infisse sette penne di gallina ch’erano poi tolte, una alla volta, ad ogni domenica, fino a Pasqua. Quest’ultima usanza è oggi in disuso.

La tradizione isernina della Curaesëma fu notata ad inizio secolo dalla scrittrice e pittrice italo-inglese Estella Canziani, durante un viaggio in Abruzzo e Molise da cui nacque un libro [Through the Apennines and the lands of the Abruzzi, Cambridge, 1928] nel quale è brevemente descritto com’era allora simboleggiata la Quaresima: «un pupazzo di stracci neri di circa cinquanta centimetri, con un  anello nascosto nella gonna; sulla gonna ven­gono appesi campioni di cibo [...]. Il pupazzo ha in mano una conocchia e della canapa».

La Curaesëma è innalzata alla mezzanotte dell’ultimo giorno di carnevale, che fino a pochi anni addietro gli abitanti di Piazza Sanfelice salutavano con un falò su cui veniva arso un fantoccio. Essa viene rimossa al sabato santo, «quando si slegano le campane». La pupattola rappresenta «una vecchia, magra e nera signora», è il simbolo del digiuno pre-pasquale, la “secca” figura che contrasta con le ricche mangiate e le abbondanti libagioni del carnasciale.

Appare difficile pronosticare un futuro per questa tradizione. Oltre al caparbio Antonio, quasi più nessuno sembra capace di saper cogliere la valenza culturale, simbolica, religiosa, magica e propiziatrice della Curaesëma .

Oggi, prima di scrivere questo pezzo, sono andato in Piazza Sanfelice per osservare la Pupattola. Ho incontrato un’anziana donna vestita di nero. M’è sembrata la raffigurazione vivente della Quaresima. Le ho chiesto cosa fosse quel fantoccio che pendeva là in alto, tra le case. Mi ha risposto modulando con la voce gli antichi versi dialettali d’una filastrocca cantata: Curaesëma secca secca, magna alicë e ficura secca, e ’na scenna rë baccalà, Curaesëma fruscia là. Poi s’è allontanata ridacchiando.